mercoledì 22 settembre 2010

L’ultimo paradiso

Durante un congresso in Australia, ho avuto la rarissima fortuna di conoscere una persona che per una buona mezzora mi ha fatto visitare un mondo da favola.

In questi tempi di spostamenti sempre più facili ed agevoli, se non proprio a buon mercato, che permettono ad un numero crescente di turisti di raggiungere gli angoli più reconditi ed inaspettati del pianeta, solo una terra resiste, quasi inviolabile, immacolata e naturale, all’assalto del turismo di massa, all’invasione di campo da parte degli umani, che tutto corrompono e tutto piegano alle loro egoistiche esigenze. Qui è la Terra che detta legge, e gli uomini si devono adeguare, se vogliono tornare indietro a raccontarla. Terra da affrontare con umiltà. Terra da rispettare e temere, perché non è generosa. Terra che non perdona errori e arroganza.

Questa terra unica e primordiale, senza confini, senza residenti fissi, senza neppure un governo o una bandiera, Rachael, con grazia e vivacità, con la sua narrazione ammaliante, ci ha preso per mano e ci ha condotto a visitarla. Bella melbournese di circa 35 anni, intelligente e autorevole, dall’eloquio spigliato e dalle certezze granitiche, ha raccontato ad un uditorio ammutolito la sua esperienza claustrale di quasi un anno a capo di una missione scientifica nella base australiana in Antartide.

Ci ha descritto la meticolosa preparazione, mesi e mesi di prove da superare, le più disparate, per essere capaci di cavarsela in qualsiasi emergenza, e senza impossibili aiuti esterni. Training svolto in Tasmania, quanto di più vicino, geograficamente e quindi climaticamente, alla destinazione finale. Trovare una persona in una stanza piena di fumo, nel buio più assoluto, strisciando alla cieca sul pavimento, sapendo che il tempo fa la differenza tra trovarlo vivo e trovarlo morto asfissiato. Rianimare un infartuato. Partecipare ad un intervento in sala operatoria. Aggiustare un gruppo elettrogeno che non ne vuole sapere di ripartire. Un addestramento duro come quello dei marines, dall’alba a notte fonda, per collaudare non solo la resistenza fisica, senza la quale non si scampa a quella terra estrema, ma soprattutto la stabilità mentale. La determinazione. La capacità di reagire agli imprevisti. La fermezza necessaria a mantenere il controllo. L’equilibrio psichico per saper gestire i momenti di scoramento, che non mancano mai in un gruppo costretto a vivere per nove mesi, senza possibilità di ripensamento, senza via d’uscita, nemmeno morti, in quel posto da basilare sopravvivenza.

E poi, finalmente, dopo un ultimo mese pieno di ansia ed euforia, la partenza. Due settimane e mezzo di navigazione imbarcati su una nave rompighiaccio. Se superi quelle, hai già raggiunto una prima meta non da tutti. Immaginate di essere su una nave che, come un enorme apriscatole, fende la spessa crosta di ghiaccio beccheggiando il suo peso avanti e indietro ed affondando la punta tagliente nel pack intirizzito. Rachael illustra bene questa traversata da tregenda con un’immagine vivida ma che dà nausea: è come vivere per venti giorni in una lavatrice che ti sbatacchia di qua e di là come uno straccio. Roba da torcersi le budella dal mal di mare. Nessuno escluso. E questo è solo l’aperitivo. Il bello deve ancora venire.

Mesi di buio assoluto, nell’inverno australe, con temperature medie di meno trentacinque. Due minuti di esposizione delle dita al clima estremo le hanno causato ustioni che hanno richiesto un anno per guarire. Impari subito che anche la minima leggerezza può essere fatale. In una base antartica non ci sono giorni di vacanza. L’unica festa pianificata è il ventun giugno, solstizio d’inverno (siamo nell’altro emisfero). Allora, vestiti eleganti portati apposta per l’occasione, donne truccate e uomini in cravatta. Si festeggia, ma senza esagerare, senza andare a stimolare una sessualità che è forzatamente repressa in questo ambiente ostile e selettivo, dove non c’è posto per i piaceri terreni ma solo per il rigore monastico di una vita organizzata e calcolata al minuto, senza spazio per cantonate o romantiche evasioni dalla routine.

Il pericolo più grande? Non lo indovinereste mai. Non è il freddo. Non è il vento che taglia come una lama. Non è il mare insidioso e glaciale. È il fuoco. Robe da matti. Ma c’è una logica. Il clima è secchissimo. Umidità zero. Basta una scintilla, e le fiamme avvampano impazzite. E l’enorme quantità d’acqua da cui si è circondati, è tutta solida. Non ci si può permettere di sprecare preziose e misurate riserve di carburante per far fondere abbastanza ghiaccio da spegnere l’incendio di una baracca. Occorre assoluta attenzione per prevenire ogni comportamento che potrebbe scatenare una vampa.

Un altro rischio, questa volta susseguente alla missione? L’Antartide è praticamente priva di germi. Si gode di perfetta salute laggiù. Sani come dei pesci. Nemmeno uno starnuto per sbaglio. Ma quando si torna a casa, dopo quasi un anno, il sistema immunitario ha abbassato le difese. La regola dei reduci è un calvario di due o tre mesi. Si paga con gli interessi la floridezza antartica, buscandosi una serie di malanni che il nostro corpo non sa più combattere efficacemente.

Continua domani con la seconda parte. Qui.

Prima pubblicazione : 15 agosto 2008

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