mercoledì 1 giugno 2011

Non guadagnano abbastanza?

È la domanda che mi nasce spontanea quando leggo dell’ennesimo scandalo scommesse che scuote e contamina il nostro infangato calcio. Gente che vende partite, gente che punta in una botta sola ciò che un operaio impiega anni a guadagnare, gente che somministra calmanti ai colleghi per addomesticare risultati, mettendo nel contempo a repentaglio la loro salute.

Non sarebbe quasi l’ora che il popolo tifoso si svegliasse dal coma e dicesse basta a questo sporco business travestito da sport? Ma si sa, panem et circenses, senza quelli la gente magari comincerebbe a pensare.

Vengo preso dallo schifo per l’ipocrisia di certe dichiarazioni – uno dei coinvolti, rivolto ai giornalisti: abbiate pietà. Abbiate pietà? La pietà è un sentimento che si applica per tutt’altri eventi. Pietà fanno i disperati che fuggono da un’Africa affamata e in guerra, e cercano una sopravvivenza in Europa, rischiando di morire in mare. Pietà si prova per i bambini torturati e uccisi dai regimi mediorientali. O per i morti di mille guerre non dichiarate, scomodi danni collaterali di bombe a torto definite intelligenti. Pietà per un ex calciatore coinvolto in combines che muovevano capitali milionari da tasche non integerrime ad altre magari peggiori? Per favore.

E per ricordare che c’è calcio e calcio, alle nostrane brutture voglio contrapporre un racconto edificante, scritto un paio d’anni fa, che narra di ingenuità e passione: virtù ormai dimenticate e forse perfino ridicolizzate dai nostri pedatori, professionisti per titolo ma non per serietà.

Fotografare un’emozione

Non m’interesso di calcio. Mi interesso di emozioni. E ci sono immagini che sanno raccontare un’emozione meglio di mille parole.

Nella stessa settimana sono accaduti due episodi che, mescolati insieme come un valente croupier farebbe con un mazzo di carte, odorano minacciosamente di déjà vu.

L’Italia pallonara (siamo solo i campioni del mondo, ma tendiamo a scordarcelo, salvo quando si tratta di negoziare gli ingaggi nei contratti) perde uno a zero con l’Egitto che, pur eccellente in Africa, non è certo uno squadrone tipo il Brasile. I giornali, sfruttando il luogo comune geografico, titolano quasi in coro: le mummie siamo noi. Lippi riesce a fare dell’umorismo, lui che di solito è parco di sorrisi, ribattendo che anche le mummie a volte si sbendano. Mandiamogli delle forbici, al buon Marcello: ne potrebbe aver bisogno.

Qualcuno, già avanti nell’età come me, si ricorda ancora di una calda serata d’estate di quarantatre anni fa. Era il diciannove luglio del '66, e la radio gracidava notizie sconsolanti e sbalorditive di un'Italia sconfitta da degli sconosciuti extraterrestri arrivati fino in Inghilterra, all’ormai demolito Ayresome Park, giusto in tempo per beffare la nazionale di Rivera e Mazzola, sicura di scendere in campo per una sgambatura.

Mercoledì scorso la nemesi dell’Italia del 1966, la cenerentolissima Corea del Nord che ci sconfisse con il celebre gol di Pak Doo Ik, si qualifica ufficialmente per la fase finale del campionato prossimo venturo, con un pareggio senza reti in casa dell’Arabia Saudita. Gli eredi dei dilettanti che rimandarono ignominiosamente a casa i ragazzi di Edmondo Fabbri, accolti con lanci di pomodori all’aeroporto di Genova, si ripresenteranno sulla ribalta mondiale il prossimo anno, dopo 44 anni di assenza.

Mentre la Repubblica Democratica Popolare di Corea (questo è il suo nome ufficiale, e l’esperienza insegna che più gli stati si autoproclamano democratici e meno lo sono) lancia velate e torve minacce di futuri olocausti nucleari se qualcuno oserà ancora rimbrottarla per i suoi test balistici e per gli esperimenti atomici sotterranei, i suoi giovani rappresentanti calcistici danno una dimostrazione di entusiasmo quasi infantile, al termine dell’incontro che garantisce loro il Sudafrica. Mille miglia lontano dagli atrofici e inespressivi portamenti della nomenclatura militare che sempre circonda – servile e sinistra insieme – il presidente Kim Jong Il.

Spesso i popoli san dimostrarsi migliori dei rispettivi governanti. Questi calciatori, descritti dagli sponsor cinesi che li dotano di maglie e calzoncini come persone frugali (e già in Cina i giocatori di calcio non sono gli dei intoccabili, viziati e strapagati ai quali siamo abituati noi), esibiscono le doti che fanno del calcio uno sport vero, e non l’indecoroso business che è in Italia: allegria, senso del gruppo, condivisione della gioia. Anche nella Corea del Nord, guardate un po’ cosa ci insegna il football, c’è gente con un cuore.


Prima pubblicazione : 21 giugno 2009

2 commenti:

  1. Non riesco più a seguire il calcio, peccato. da ragazzino ero bravino e lo vedevo come uno sport sano.

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  2. Ciao Alessio,

    anch'io, come molti, da ragazzino giochicchiavo. In porta. Mancai di poco un provino con la Juve. Meglio così, forse.

    Oggi il calcio è tutto tranne sano. Ce lo continuano a ripetere i fatti, da anni, ma la gente ancora non ci vuol credere. Rimarrebbe senza i circenses. E solo di panem non si campa.

    Grazie del commento, a presto,
    HP

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