domenica 11 dicembre 2011

Mostri di ieri...

Urla del silenzio. Per una volta la libera traduzione italiana del titolo di un film è perfetta per il soggetto. Mi pareva di sentirle, le urla, in quel silenzio irreale. Mi sembrava che da quella teoria straziante di foto appassite, in bianco e nero, da quelle migliaia di occhi sbarrati, spenti, atterriti, da quelle bocche serrate uscissero ossessivi, travagliati lamenti di dannati danteschi. Mai visitato un museo con la medesima spettrale assenza di rumore, benchè affollato da una torma eterogenea di stranieri che procedono con espressione affranta – tra il compunto e l’inebetito – attraverso le stanze e gli orrori che ancora aleggiano dintorno.

Vietato ridere. Anche se l’unica scritta è in caratteri Khmer, l’immagine sul cartello all’ingresso non ha bisogno di traduzione. Del resto, nessuno ride, e neppure sorride. C’è scandalo, turbamento, incredulità, mortificazione e sdegno nei volti dei visitatori. Ma proprio nessuna voglia di ridere.

Phnom Penh, museo di Tuol Sleng. Una scuola trasformata in prigione. La famigerata S-21, ora sede permanente dell’esposizione che prova a spiegare qualcosa sul genocidio degli anni dal 1975 al 1979. Quasi quattro interminabili anni di terrore estremo, di obnubilamento totale del significato di umanità, di assoluta perdita di qualsiasi valore morale. Una strage infinita, turpe, impressionante nella sua scientificità, e purtroppo ormai dimenticata dai più.

In quella galera oscena si sono consumati i drammi di una minima parte dei milioni di cambogiani assassinati da Pol Pot e la sua cricca: tredicimila persone. Ne sono sopravvissute sette, poveri relitti umani trovati dai vietnamiti arrivati a Phnom Penh per affrancarla del giogo criminale dei Khmer Rouge. Pochi altri hanno mancato l’appuntamento con il destino liberatorio per una questione di giorni. Sono stati pietosamente seppelliti nel cortile dell’istituto trasformato in scuola per torturatori, ed ora ricordano a tutti che si era lì solo per uno scopo: morire, soffrendo pene indicibili nel processo.

Tre piani di edificio, quattro sezioni. Vi erano stivati fino a millecinquecento internati alla volta, in quei pochi metri quadri in cui la vita perdeva qualsiasi valore o significato. Oggi tutto ciò che resta è una carrellata impressionante di ritratti dei prigionieri, meticolosamente fotografati dai loro aguzzini. Una efferata, scrupolosa, ossessionante contabilità, evidenziata dai numeri progressivi sul petto delle vittime. Tra tanti volti spauriti, disperati, tumefatti, ignari e allibiti, o vuoti ormai di ogni espressione e pieni di rassegnata impotenza, mi ha colpito uno.
Fiero, marziale, indomito, gli occhi intensi che sfidano l’obiettivo degli assassini. Forse un militare. O forse un impavido civile che osava reagire all’intimidazione di quel regime folle, assurdo, idiota come tutte le radicalizzazioni estremiste di principi e pensieri politici e religiosi. Che sia maledetto il fanatismo.

Dovrebbe essere obbligatorio per tutti, almeno una volta nella vita, visitare luoghi come la prigione di Tuol Sleng. È una lezione che vale infinite volte più dei modesti tre dollari richiesti per entrare in questa bolgia fattasi cosa terrena. Fa capire l’assurdità della discriminazione, l’abominio dell’erasione sistematica di chi è considerato diverso.
Nella Cambogia di Pol Pot e del suo scagnozzo Duch, il caporione tiranno della S-21, lombrosianamente viscido e ripugnante, era facilissimo apparire non allineati, e morirne. Ma non subito. Prima occorreva passare per le grinfie dei carnefici di regime e, con la sofferenza, espiare i propri crimini. Bastava esser considerati intellettuali. Essere stati militari del regime sconfitto di Lon Nol. Conoscere una lingua straniera. A volte bastava saper scrivere. O rifiutare di spogliarsi della tonaca di monaco buddista. Avere un vicino in vena di delazioni che bollasse qualcuno come controrivoluzionario. Addirittura portare gli occhiali era segno di dissolutezza borghese, punibile con la tortura, fino all’ammissione delle proprie colpe, come esser miopi, e la redentrice morte. Nella Caina di questo vergognoso inferno non posso non collocare la vessazione più degradante, più odiosa, più aberrante: si poteva essere uccisi per aver mostrato nostalgia per moglie, figli, genitori o fratelli, per aver dichiarato di amarli, per aver lasciato che la debolezza dei propri sentimenti avesse la meglio sulla fanatica, assoluta, cieca dedizione verso la causa.

Tra tante macabre tracce di quanto abietto sia stato quel luogo, una mi ha angosciato in maniera particolare. E non sono i teschi, che pur documentano i diversi metodi per uccidere i prigionieri. Non le foto post mortem, con quegli occhi dilatati e sbigottiti e le bocche spalancate che gridano dall’aldilà ma nessuno sembra ascoltarle. Non gli strumenti di tortura, la vasca d’acqua in cui si immergevano i torturati finchè i polmoni non scoppiavano di asfissia, i letti di contenzione a cui venivano aggiogati i prigionieri per estirpargli confessioni e ammissioni attraverso sofferenze indicibili. Non le foto giganti appese alle pareti delle palestre di tortura, dove si vedono, esanimi sui graticci metallici, ammassi di carni enfiate e sanguinolente che una volta erano uomini, donne, bambini.
La visione più atroce, nella sua irreversibilità, è il pavimento piastrellato di quelle sale. Una scacchiera di mattonelle bianche e ocra, che proprio sotto i brulli letti di contenzione e tortura diventa malvagiamente scura. Vaste macchie opprimenti color bruno morte occhieggiano e urlano anche loro nel silenzio. È il sangue versato copiosamente più di trent’anni fa da migliaia di vittime innocenti, chiazze insopportabili e irremovibili con cui confrontarsi, che dovrebbero pesare come macigni sulla coscienza collettiva.

Non ci sono risposte ai mille perché che affiorano alla mente ed al cuore, trascinandosi a fatica attraverso quell’edificio maledetto. Solo un pensiero dominante: mai più.

Prima pubblicazione : 7 gennaio 2009

2 commenti:

  1. Purtroppo, non ci sarà mai giustizia per le vittime di questo genocidio dimenticato. I cambogiani non avranno mai diritto a un Nuremberg. Aspettiamo ancora la sentenza per Duch, il boia rischia solo 30 anni di carcere, nemmeno la reclusione a vita....Per quanto riguarda il secondo processo quello di Nuon Chea, Khieu Samphan, Ieng Sary et Ieng Thirith sembra addirittura insabbiato dai giudici e dall'oligarchia al potere...D'altronde, il dirigente Hun Sen si oppone fermamente ai processi tre e quattro che riguardano Meas Muth(comandante della marina )e Sou Met (comandante dell'aeronautica militare). Oggi come ieri, i cambogiano devono vivere in mezzo ai boia....

    http://www.tagtele.com/videos/voir/65177

    Alex

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  2. ciao Alex,

    mi scuso per il ritardo, ho accumulato un sacco di commenti a cui replicare. Grazie dell'intervento! E' tristemente vero che i cambogiani non avranno la giustizia che si meritano. Molti dei vecchi assassini della cricca di Pol Pot sono morti, alcuni sono ormai avviati verso un declino della carne, e non dureranno a sufficienza da esser giudicati, altri sono scomparsi nei meandri del nuovo apparato statale...

    Ed è perfino difficile parlare di vera giustizia, quando si giudica chi ha ucciso, direttamente o indirettamente, dei milioni di suoi connazionali. Milioni.

    Ciao, a presto,
    HP

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