domenica 29 dicembre 2013

Essere o non essere…

... italiano? Il dilemma in questo caso non si pone. La risposta è certamente no.

Perché se lo sgrammaticato procuito poteva lasciare qualche spazio al dubbio, alla frettolosa distrazione, alla innocente svista, già quando arriviamo alla qualifica geografica, e si scivola sullo strafalcione Prama, allora c’è la certezza di una mano apocrifa dietro alla compilazione di un tale menu degli orrori. Subito dopo, burata non aiuta a migliorare l’infelice posizione lessicale del redattore.


Bisogno di ulteriori conferme? Ci pensa la definitiva e straziante deformazione della nostra umile e sana focaccia a convalidare la tesi testé acclarata: una forgasia non fa primavera. E soprattutto non fa un ristorante autenticamente italiano. O sole mio, Singapore. Astenersi, per favore. Almeno fino a quando questi analfabeti non arriveranno a capire che perfino un dozzinale Google translator può servire a qualcosa.




martedì 17 dicembre 2013

Whistleblowers

C'era una volta un piccione viaggiatore. Che si portava appresso un curioso taccuino, e raccontava a tutti che quella era la sua macchina fotografica.

Poi un giorno il piccione cadde in tentazione. Fedele fino ad allora al mantra della pellicola, capitolò di fronte alle lusinghe della visione immediata del risultato, della leggerezza e compattezza del nuovo oggetto di culto, della praticità di avere con sé scorte quasi illimitate di fotogrammi. Insomma, in due parole abbandonò il rullino per il digitale.

E grazie, o forse dovrei dire per colpa di macchine sempre più piccole e potenti, pronte allo sfodero e allo scatto senza pensieri e senza titubanze, che tanto se vien male si cancella (poi) e se ne fa un’altra (ora), il taccuino lentamente fu messo da parte. Note, appunti e racconti in fieri divennero via via più rarefatti, la matitina le cui mine prima duravano il breve arco di una stagione riposò inutilizzata tra le pagine bianche che lentamente ingiallivano nella vana attesa di essere tappezzate di parole.

Era facile – e perfino divertente – scegliere qualche scatto e recensirlo brevemente. Un’istantanea parla da sé, talora non ha bisogno di nient’altro se non un titolo.

A volte ritornano. E questo capita quando il mondo ti passa davanti, ma le immagini scorrono troppo rapide per riuscire anche solo ad inquadrarle. Allora ti ricordi che ci vogliono la memoria, gli occhi e la penna, per riprodurle. E soprattutto il cuore.

Come mi è capitato, di recente, a Manila. Viaggiando in mezzo al traffico si vedono un sacco di affreschi di umanità varia. Scene di un attimo. Episodi minimi di vita quotidiana.

Cani protagonisti, nel bene e nel male. Vedo un cagnetto che fa da polena su un carrettino. Gli occhi sono socchiusi e sembra quasi che sorrida. Data la modesta velocità, non credo fosse per proteggerli dal vento. Magari una istintiva difesa contro l’inquinamento che ammanta come un sudario caliginoso la capitale filippina. Poco più in là, sulle spesse lastre metalliche di un cancello marrone, una mano ferma ha vergato a pennello bianco la scritta: beware of killer dogs. Attenti ai cani assassini. Per tenere lontani i malintenzionati? Forse. Chi ha veramente dei killer dogs non lo pubblicizza, per non dare inutili vantaggi ai banditi.

In certe ore (quasi tutte quelle del giorno) nel caos indescrivibile il traffico scorre lentissimo. Ore per fare pochi chilometri. Dalle onnipresenti jeepneys saltano fuori al volo dei passeggeri, subito rimpiazzati da altri clienti. Il trasporto pubblico è quasi interamente appaltato a questi microimprenditori dalle gomme lise, dal molto acciaio cromato e dalle decorazioni vivaci, spesso a tema religioso. L’autista, per aver sempre pronto il resto per i passeggeri, viaggia con delle banconote di piccolo taglio, piegate in due per il lungo, infilate tra le dita. Eppure riesce anche a guidare, spesso scalzo o in sandali, sgasando rumorosamente per conquistare di prepotenza la precedenza nel corpo a corpo tra lamiere di piccolo cabotaggio.

Un ragazzo semivestito fa la doccia sul marciapiede, attingendo l’acqua da un idrante appositamente svitato. Non gl’importa un fico secco della gente intorno, che peraltro non lo degna d’uno sguardo, mentre finisce le proprie abluzioni e sbuffa intorno l’acqua fredda che si versa sulla testa a mestolate, con una cucchiaia di plastica rossa da cereali.

All’angolo tra due strade sul marciapiede c’è un cubicolo di cemento arancione con una tettoia rialzata in lamiera. Ci sta dentro a malapena una persona, e la testa rimane a vista, per denunciarne senza dubbi l’occupazione. Public urinal, riporta una scritta manuale in bella grafia. Ma non basta: “courtesy of...”. Come dire, qualche mediocre amministratore locale ha sentito l’esigenza di far presente ai suoi concittadini che quel lussuoso vespasiano l’aveva fatto installare proprio lui in quel cantone, e quindi si aspettava della riconoscenza – sotto forma di voti, va da sè.

A proposito di politici. La gente è furibonda con la classe dirigente, che incassa stipendi da favola ma non si accontenta di questi. Pork barrel è sulla bocca di tutti, vivace espressione che indica l’uso fraudolento di fondi destinati ai lavori pubblici. L’ultimo scandalo? Nelle Filippine l’elettricità non viene distribuita con reti sotterranee. Come in Giappone, il paesaggio è costellato di pali della luce e talora di inestricabili matasse di fili che chi ci capisce è bravo. Tutto questo sartiame elettrico è stato spazzato via dai venti a 300 all’ora del tifone Yolanda, nell’isola di Leyte. Ricostruire queste infrastrutture di distribuzione d’energia si stima costi centinaia di milioni di dollari. Chi pensate che li pagherà? Ma naturalmente la popolazione sinistrata, che se vorrà accedere ai rinnovati servizi elettrici si troverà in bolletta la maggiorazione necessaria a coprire i costi della nuova rete.

Intanto a Manila il teatrino continua, con scaramucce tra congressmen (ma anche women) che si accusano l’un l’altro di essere ladri e approfittatori. Abitudine talmente diffusa e radicata da aver dato origine ad una figura molto in auge oggi : il wistleblower. Letteralmente chi soffia nel fischietto. Metafora per indicare chi è dell’ambiente e, improvvisamente schifato dalla troppa disonestà, si decide a parlare per denunciare il malaffare e la corruttela imperante tra chi governa. Mestiere apparentemente rischioso, quello del whistleblower, al punto che c’è chi ha proposto un progetto di legge per proteggere e incentivare con benefici economici questi fischiatori pentiti.

Forse è venuto il momento di ricordare ai miei quattro lettori che sto parlando delle Filippine. Che so io, vi foste distratti un attimo e la mente vi avesse portato a pensare che stessi raccontando di un’altra nazione a noi cara. Vedete voi quale.





mercoledì 4 dicembre 2013

Veridica Istoria Di S. Barbara

In occasione dell'odierna ricorrenza di Santa Barbara, voglio pubblicare un'antichissima goliardica ode, composta da chissà chi e forse risalente ai tempi della Grande Guerra, che ho ritrovato, dattilografata su carta velina ormai lisa e ingiallita, tra le cose di mio padre, Ufficiale di Artiglieria da Montagna del Regno d'Italia.

Vi avverto: non è una poesia per educande. Anzi, contiene un’equa dose di vocaboli sconci, nonché un’interpretazione quantomeno ardita del martirio della santa. Chi si turba o si scandalizza facilmente, lo invito a smetter di leggere qui.

Ma per gli amanti del lazzo d’antan e della scrittura manierista, questa è una vera chicca. Perché, pensate un po’, quest’ode in versi alessandrini dev’essere stata scritta circa un secolo fa. Certo da qualche ignoto bello spirito dalla penna abile e briosa.



VERIDICA ISTORIA DI S. BARBARA

quale risulta da un mio manoscritto del
XV secolo

De relationibus inter foconem et culatta

Ovidio Nasone

I
Non vi è successo dite, talor di domandare,
O le segrete cause voler investigare,
Che spinser S. Barbara, la vergin casta e pia,
A mettersi a protegger la truce artiglieria?
Se stiamo ai sacri canoni, Barbara fu una santa
Che nacque: al dir d’Orazio, nel 480;
Se stiamo alla leggenda, fu una casta fanciulla
Cui piacevano i pezzi fin da quand’era in culla;
Se stiamo ad una vecchia, ma ignobil tradizione,
Di cui parla Virgilio, Catullo e Cicerone,
Questa dice che Barbara si fosse in gioventù
Fatta chiavar da Cesare, il qual al dir dei più,
Cominciò la carriera con rara maestria
Quale soldato semplice nel primo artiglieria.
Come potete scorgere, son varie le opinioni,
Son molti i testi storici e le contraddizioni;
Io da un vecchio papiro il sunto ho quì ritratto
Del modo vero, autentico di come avvenne il fatto.

II
Il testo mio racconta che Barbara era bella,
Avea le forme splendide e l’andatura snella;
Corvine avea le chiome, di madreperla i denti,
Da far destare un morto, insomma i lineamenti;
Che molto era pelosa sotto ambedue le ascelle,
E dure come il marmo aveva le mammelle,
Ma, o fosse per calcolo, o fosse per pudore,
Non la volea mollare neppure al confessore.
Tale ritegno alfine, fece stizzire Augusto
Al quale, a fil di logica, non appariva giusto
Che in mezzo a tante troie della corte pagana
Facesse la smorfiosa la vergine cristiana,
Onde fece invitare il popolo romano
A ritrovarsi un giorno nel circo di Traiano
Per potere ciascuno, sia plebeo, sia patrizio,
Assistere e concorrere di Barbara al supplizio.

III
Qui mi manca la penna, mi vien men l’intelletto
Come infatti descrivere lo straordinario effetto
Prodotto sulla folla al veder di repente
Nel circo trascinata la vergine piangente,
Tutta ignuda, coperta soltanto, a dire il vero,
Nei punti più preziosi dal suo bel pelo nero..?..
Bisogna figurarsi che nell’ampio ippodromo
C’era un uomo dovunque si può cacciare un uomo;
L’ingresso era gratuito, chè dall’imperatore
Eran state concesse le entrate di favore;
E quando non si paga, ognun questo lo sa,
Poiché non c’è da spendere il popolino va.
Nella gran folla i maschi erano in maggioranza,
Che ammirando di Barbara la pudica prestanza,
Provarono un prurito, e poscia un gran fermento
E sulla punta del membro un serio incordamento,
Ed essendo in quel tempo poco i calzoni in voga
A ogni roman fu visto sollevarsi la toga.
In quella, dalle trombe fu suonato l’appello
E il commissario avendo ben scosso il campanello:
“Cesare Augusto, disse, nella sua gran bontà,
“Vuol che sia tolta a Barbara la sua verginità,
“Ed ordina che, a rendere la festa più imponente,
“L’operazion sia fatta dal membro più potente,
“Chi dunque più tarchiato di voi d’aver lo creda,
“Veder lo faccia e s’abbia la verginella in preda.”
A tai detti i romani non si fecer pregare,
Ma furon solleciti la toga a sollevare,
E cento mila uccelli dell’ippodromo intorno,
Furon visti venire alla luce del giorno
Maestoso spettacolo, che, a dir di Giovenale,
Roma nei dieci secoli non vide mai l’eguale!
Un concorso sì splendido mise nell’imbarazzo
Il giurì destinato a prescegliere il cazzo.
Ma dopo attento esame e minuziosa indagine
Fu premiato uno schiavo nativo di Cartagine,
Che, in mezzo ai battimani e delle trombe al suono,
Fu condotto in trionfo, d’Augusto ai piè del trono.
La verginella intanto tremante se ne stava
D’esser così nuda molto si vergognava:
Con una mano coprivasi del bel seno il candore
E con l’altra celava l’altare dell’amore;
E piamente orava: “Dio di bontà difendi
“L’umile ancella tua da quegli arnesi orrendi;
“Pensa che vergin sono e che in sì picciol foro
“Penetrar non potrà l’uccello di quel toro.”
Il pudico lamento salì diretto al cielo
E Dio, fatto chiamare l’Arcangelo Gabrielo
Gli consegnò un pacchetto, dove c’era involtata
Una polvere stata da lui confezionata,
Dicendo: “Va d’un subito nel circo di Traiano,
“E metti questa polvere di Barbara nell’ano.
“Cerca non esser visto nel far questo lavoro,
“Onde non suscitar l’attenzione del toro.”
La commission fù fatta in men che non si dice,
Mentre che il moro, fattosi dappresso all’infelice,
Si preparava a compiere l’esecrato supplizio,
Presentando l’uccello del foro all’orifizio.
Quì accadde un fatto nuovo, un fatto molto strano,
Che apparve ancor più nuovo al popolo romano
S’intese un colpo orribile, una detonazione,
Che fè tremare il circo fin dalla fondazione,
Mentre che il Moro e Barbara venivan proiettati
Coi membri, dentro il circo, rotti e disseminati.
E i romani fuggendo dicevan: “Perbacco è strano
“Che a un tratto il cul di Barbara si sia fatto un vulcano!”.

IV
Fur dai cristian raccolte della santa le ceneri
E perché dai mortali la martire si veneri,
Si chiusero in un’urna, messa poi fra le tombe,
In mezzo agli altri martiri, giù nelle catacombe.
E forse da nessuno si saria ritrovata
La maniera con cui fu Barbara salvata,
Se un devoto o pudico tedesco cappuccino
Non avesse l’uccello messo dentro al bacino
Dove erano della santa i resti conservati
A scopo di purgarlo dei molti suoi peccati.
L’uccello, nell’uscire dall’urna benedetta,
Avea la punta carica di una polve brunetta,
Che analizzata e posta sotto lavorazione
Fu trovato esser polvere da cannone,
Ricostrutta la storia e visto che il pacchetto
Venne messo dall’angelo in quel certo luoghetto
Gli artiglieri deciser di chiamare culatta
Il luogo ove la carica in general s’adatta.

V
Di tutto questo, ditemi, qual’è mai la morale?
Lo schiavo, non avrebbe fatto il salto mortale
Se prima d’introdursi nel buco antirestante
Avesse messo un dito in quello retrostante:
Onde a giusta misura prescrive l’istruzione
Che chi scovola il pezzo, turi prima il focone.



sabato 16 novembre 2013

Please help us

Per favore, aiutateci. Abbiamo bisogno di cibo.

Non sono i soliti professionisti della questua. In Asia, per strada o ai semafori, è facile imbattersi in dei bambini che chiedono soldi. Tanti, troppi. Sempre malmessi, spesso sporchi, talora purtroppo rapiti alle famiglie da adulti criminali che gestiscono questo laido racket. A volte sono storpiati dai loro aguzzini e sfruttatori per meglio far leva sulla pietà dei donatori.

Questi invece sono bambini filippini sopravvissuti al tifone Yolanda. Non sono né sporchi né storpi, e soprattutto non sono professionisti. Sono solo affamati. Non chiedono denaro, ma cibo.

Chi ha perso tutto, magari perfino la famiglia, non cerca soldi. Restano solo le necessità basilari quando è questione di mera sopravvivenza. Per questo sporgono le mani giunte, pieni di speranza e fiducia nella bontà di sconosciuti in transito.

Mostrano un cartello gentile ed educato, che implora per loro. Ma sono quelle braccine tese, quegli sguardi innocenti e supplici, quel loro muto attendere un gesto di vitale compassione a dover colpire non solo qualche distratto automobilista di passaggio, ma il mondo intero.

Nessuna di queste creature dovrebbe essere costretta all’umiliazione di mendicare un po’ di riso. Se il mondo è capace di osservare questa immagine senza provare infinita pena e vergogna, e senza far qualcosa per aiutare chi non ha più nulla salvo forse la dignità, allora non è un posto dove voglio vivere.




venerdì 15 novembre 2013

Genitori numerati

Finalmente il politically correct sbarca in Italia. Se ne sentiva il bisogno. Dopo il caso del Liceo romano in cui gli antiquati termini padre e madre vengono soppiantati dai più moderni e matematici genitore 1 e genitore 2, è il caso di aggiornarsi.

Volete essere al passo coi tempi? Non fate la figura dei retrogradi, usando ancora certe terminologie obsolete e sessiste. Vi aiuto un po’, per iniziare ad impratichirvi.

Questo, per esempio, è...

Il Genitore 1 della Patria


In un consesso di cinefili, ricordatevi che il capolavoro di Almodovar è...

Tutto sul mio genitore 2


Avete in programma un pellegrinaggio al sud? Agli amici sensibili alla neutralità di genere, dite che andate da...

Genitore 1 Pio


Non siamo più ai tempi di tranvai sferraglianti, balille e vestivamo alla marinara. Oggi a Torino questa chiesa si chiama...

Il Gran Genitore 2 di Dio


E via discorrendo...





lunedì 4 novembre 2013

Lucca Comics – terza parte

Segue da ieri.

Gladiatore o modello?


Il cosplay si ferma alla fila di sopra. La fanciulla accosciata, turista orientale, era proprio vestita così, non stava giocando alla scolaretta.


Superman con orologio e braccialetto? Passi. Ma gli occhiali da sole? Che fine ha fatto la supervista?


Fotografando alcuni figuranti in ripida discesa dalle mura di Lucca, non mi sono accorto che il meglio stava avvenendo nel parcheggio. Della serie: when you see it...


Infine, una lode al coraggio e all’ironia. Grande Trilly.






domenica 3 novembre 2013

Lucca Comics - seconda parte

Continua da ieri, qui.


Er monnezza. Dono di natura: somigliantissimo.


Tutti i colori dei capelli.


Fascinosa vampiressa...


... e le sue bellissime mani.


Pirati, all’arrembaggio!!




Terza e ultima parte, domani.

sabato 2 novembre 2013

Lucca Comics

Una kermesse in maschera paragonabile solo al carnevale di Viareggio. Con una differenza: l’impegno e l’attenzione alla cura dei dettagli di alcuni dei protagonisti. Una manifestazione internazionale in una cittadina ai limiti del soffocamento da ressa. Mai vista Lucca così strabordante di gente.


Mai visti, peraltro, trucchi, acconciature e abbigliamenti così perfetti.







Continua, domani, con altri scatti.

domenica 27 ottobre 2013

Quando un amico se ne va

Caro Luigi,

grazie per essere stato con me tutta la domenica. Mi hai parlato, mi hai fatto i tuoi soliti, graditissimi complimenti per le mie cose che hai letto con piacere. Ho risentito la tua voce, come cinque anni fa a Novara.

Alla fine, quando credevo che non avessi quasi più nulla da dirmi, ho ritrovato le tue parole più belle, quelle che mi scrivesti all’inizio di aprile del 2008. Eccole:

Appeso ad una parete ho un quadretto su cui è scritto "chi sopravvive nei ricordi e nel cuore dei sopravvissuti non è mai morto".

E quel ricordo diventa una fiaccola da tenere accesa.



Con queste tue parole voglio accommiatarmi da te. Vivo, perché lo sarai sempre nel cuore di chi ti ha conosciuto, apprezzato e stimato. Come me.

So che sentirò la tua mancanza. Ma quando accadrà, farò come oggi. Passerò la giornata rileggendo i nostri piccoli, preziosi scambi epistolari.

Ciao, Luigi.





domenica 20 ottobre 2013

Contrasti


Tradizione



Modernità


Fotografate entrambe a Singapore la sera del ventidue settembre. Un paio di chilometri più in là si stava svolgendo il gran premio di Formula Uno. Ma molta gente, me compreso, al rombo dei motori della corsa in notturna più abbacinante al mondo ha preferito il quieto semibuio della gita nel parco per ammirare il tradizionale festival delle lanterne. Cinesi, ma fini ed educati come dei lord inglesi. Solo a Singapore.



giovedì 17 ottobre 2013

Beni primari

Domenica pomeriggio, stazione di servizio su un’autostrada vicino a Seoul. In un angolo vedo un’apparecchiatura in parte insolita. Perché quattro rubinetti sporgenti da una specie di frigo blu non sorprendono affatto. Ma la vetrinetta accanto mi incuriosisce troppo. Piena di file ordinate di bicchieri d’acciaio, con un cestino sotto. L’amico locale che ormai conosco da quasi vent’anni mi spiega. Anzi ride, ripensando a vecchie e buffe vicende avvenute in Italia. Ricorda dei suoi clienti lamentarsi perché avevano bevuto una bottiglia d’acqua in albergo e questi strambi italiani insistevano per farsela pagare.

Qui in Corea l’acqua è gratis, chiosa. Vedi? Prendi un bicchiere, bevi per quanto hai sete e poi lo butti nel cestino. Tutto offerto. Acqua filtrata, sana, garantita. Perfino buona.

Vagli a spiegare che da noi, se mai succedesse, la gente per prima cosa si fregherebbe i bei bicchierini d’acciaio. Poi si riempirebbe bottiglie e bottiglie, infischiandosene di quelli in coda per vera sete. Ammesso che l’apparecchiatura durasse in funzione e non venisse vandalizzata dai soliti idioti che pensano sia divertente spaccare tutto.

Generosità è offrire un bicchiere d’acqua gratuito a chi ha sete. Civiltà è farlo con eleganza.




venerdì 11 ottobre 2013

Dedicato a un’ex ministra…

... che ci vuol far diventare tutti vegetariani.

I giapponesi riescono sempre ad essere originali. In tutto il resto dell’estremo oriente non c’è modo di mangiare una braciola che non sia stracotta, e le bistecche sono spesso delle tristi suole di scarpa incartapecorite. Agli orientali basta veder comparire una goccia di sangue mentre tagliano il filettino per rimandarlo indietro schifati per un’ulteriore radicale cottura.

Io adoro la carne appena scottata in superficie, quasi fredda dentro, e per quanti sforzi faccia nell’ordinare, non riesco mai ad averla come piace a me. Evidentemente i cuochi cinesi non concepiscono che uno appetisca un pezzo di carne non completamente asciugato di qualsiasi umore. Diatriba simile per le uova fritte: io amo il tuorlo crudo per meglio assaporarlo, e loro insistono a martoriare quelle povere uova. Finchè il tuorlo non è assodato e l’albume quasi bruciacchiato, dopo un paio di capriole in padella, non te le servono. De gustibus.

Invece in Giappone c’è la cultura delle cruditè. Sashimi e sushi sono sinonimi della loro cucina. Ma non c’è solo il pesce, di crudo. Nell’isola meridionale di Kyushu, a Kumamoto, un piatto tradizionale è la carne di cavallo. I veri buongustai la mangiano rigorosamente cruda.

I giapponesi hanno il senso della gratitudine. Una sera, forse per ricambiare certe libagioni subalpine a base di carne all’albese o di fresche battute al coltello da saporiti manzi piemontesi, mi è stata imbandita una tavola essenziale ma prelibata. Pochi, sceltissimi tagli. Bocconcini da centellinare uno per uno, intinti, proprio volendo dar loro una parvenza di cottura, in salsa di soia in cui stemperare erba cipollina e zenzero tritati. Che io ho trascurato, per apprezzare l’autentico sapore della carne.

In Italia c’è il mito della carne di cavallo che fa bene perché ricca di ferro e soprattutto magrissima. Invece questa aveva delle deliziose marezzature, degne di un Angus beef. Per non parlare di un taglio bello come un prosciutto, con magro e grasso separati con precisione nipponica. Ma l’apoteosi è stato il tategami, candido lardo equino di una delicatezza incomparabile. Roba da vergognarsi di aver qualche volta decantato con loro il lardo di Colonnata o quello di Arnad.

Mi attirerò le ire degli animalisti? Pazienza. Non si può sempre piacere a tutti. E a chi mi dirà che non amo i cavalli, rispondo che mi invece mi piacciono. Da vivi. E non solo.




giovedì 10 ottobre 2013

Caldo e freddo

Caro Chuck Abbott, ho deciso di scriverti. Per parlarti della differenza tra caldo e freddo. Anche se il tuo messaggio si apre e si chiude con la parola warm, che sta per calorosi (il benvenuto e gli ossequi), non sei riuscito a trasmettere il supposto tepore del tuo interessamento. Perché il mezzo è freddo: lo schermo del televisore in camera. E perché il messaggio è freddo: impersonale, probabilmente trasmesso da un computer a tutte le camere con la sola piccola personalizzazione del nome dell’ospite – ma visto che non siamo così in confidenza da usare il nome di battesimo, al cognome sarebbe stato carino far precedere un Mr., che così suona un po’ sgarbato.

E non mi prendere per un incontentabile. Perché nella tua stessa catena alberghiera c’è anche chi del messaggio di accoglienza sa davvero far sentire il calore. Come mi è successo, solo pochi giorni prima, in un hotel di Jakarta.

Un semplice cartoncino sulla scrivania. Ma scritto a mano. Mi piace pensare che il tuo pari ruolo Andreas abbia speso un minuto del suo tempo per darmi il benvenuto, magari usando una poetica stilografica, e che quel biglietto sia reso esclusivo dall’unicità della calligrafia, mai uguale a se stessa. E mi piace il disegno in stile coloniale dai tenui colori pastello, che volendo diventa una cartolina da staccare e spedire a qualche amico speciale degno di ricevere un antiquato souvenir con tanto di francobollo esotico, invece di un banale e frettoloso sms o un’anonima foto buttata lì in qualche social network, più per esibizionismo che per vero piacere di condivisione del momento.

Ecco, tutto questo è veramente caldo. Solo per farti presente la differenza, Chuck.





martedì 8 ottobre 2013

Fire escape device


Corda, due paia di guanti, maschere antifumo, martello appuntito per rompere il vetro della finestra. Era davvero tanto tempo che non trovavo in una camera d’albergo un set completo per mettersi in salvo in caso d’incendio. L’ultima volta mi era successo a Taiwan, nel 1998. Mi aveva incuriosito al punto da scrivere un raccontino.

Paese che vai...

... attrezzature che trovi. Mi era capitato di scoprire, nelle camere di albergo, le cose più sorprendenti, almeno per gli standard degli hotel nostrani. Un kit di emergenza antincendio costituito da una maschera antigas (Corea), istruzioni dettagliate su cosa fare e come non farsi prendere dal panico in caso di terremoti (Giappone e Taiwan), le paperelle di gomma sul bordo della vasca da bagno (Inghilterra), perfino i preservativi in confezione da tre (con tanto di prezzo nella lista del minibar) gaiamente proposti fra noccioline, mignon di liquore e patatine per lo spuntino notturno (Brasile, e dove altro sennò?).

Ma la scatola metallica bianca che trovo in un angolo della stanza, a Kaohsiung, supera la mia capacità di non sorprendermi più. Ascend escape device, le uniche parole leggibili in una selva di caratteri cinesi, risaltano in rosso vivo sul coperchio. Un cartello di plastica per l’uso del contenuto, privo di traduzione, ma per fortuna con disegnini esplicativi, fa bella mostra di sé sulla parete.

Possibile?, mi chiedo guardando le istruzioni. Possibile. Sollevo il coperchio, e trovo, ordinatamente disposti, un verricello, una grossa matassa di fune da alpinista, un moschettone ed un’imbragatura.

Però! E se mi venisse la voglia di usarlo per calarmi dal nono piano, in caso di emergenza? Osservo le istruzioni, considerando quanta gente troverebbe il sangue freddo necessario - magari col fuoco che incombe - per passare cento metri di fune attraverso il verricello, agganciarla correttamente al moschettone, e quest’ultimo all’imbragatura, dopodiché vestirla, e poi…. Già, e poi? Per calarsi da trenta metri occorre assicurare il verricello ad un gancio infisso nel muro, peccato che esista solo sul cartello appeso alla parete. E la finestra? Sigillata. Neppure un martelletto di quelli che vedi sulle porte sugli autobus, rompere il vetro in caso di necessità. Un appiglio dove tentare di agganciare il verricello? Nemmeno a parlarne, facciata verticale e liscia come un patinoire!

Risultato? Un’attrezzatura pensata in grande. Peccato che si sia pensato in grande, ma solo a metà!


Ma stavolta in Corea ho trovato l’anello mancante. Letteralmente. Sotto la scrivania, vicino alla finestra, ben imbullonato a terra c’era un robusto tassello a testa tonda, a cui agganciare la corda. Meno male. Hanno pensato anche a quello, oltre al martello assente a Taiwan.

Ah, a proposito di emergenze. Da qualche parte ho letto una di quelle notiziole che potrebbero un giorno tornare utili (anche se si spera di no…). Quando arrivate in un albergo, scegliete sempre – se possibile – una camera fino al settimo piano. Strane superstizioni? No: pare che le autoscale dei pompieri si estendano solo fino a quell’altezza. Quindi, in caso d’incendio, se siete più su dovete farvela a piedi per le scale. Oppure, ammesso che abbiate la corda d’emergenza in camera e il sangue freddo per agganciarla e calarla, dovete pregare che le vostre braccia vi reggano per l’intera discesa, magari mentre tutto intorno l’edificio sta bruciando… Fate voi. Se avete un fisico bestiale, liberi di scegliere il piano che più vi aggrada. Se no, ricordatevi il numero magico: sette.




mercoledì 2 ottobre 2013

La pizza più cara del mondo


Avete, che so io, un migliaio di euro che vi avanzano? Vi state chiedendo come scialacquarli? Con quel gruzzolo potete comprare una bella, appetitosa, filante pizza.

La buona notizia? Ve la potrete godere giorno e notte, esposta nella vetrinetta del buffet del salotto buono, insieme ad altre improponibili chincaglierie regalatevi da falsi amici, che non avete il coraggio civile di rottamare (né le chincaglierie, né gli amici). Perché si tratta di una inossidabile creazione di un maestro giapponese che plasma i finti (ma quasi indistinguibili dagli originali) cibi per le vetrine dei ristoranti nipponici.

La cattiva notizia? Per la suddetta modica mercede non vi danno nemmeno una pizza intera. No. Vi dovete accontentare di mezza razione, resa artificialmente intera con un sapiente gioco di specchi. E sapete perché? Non perché l’artista si sia stancato a metà opera. Perché così occupa solo la metà del posto, pur mantenendo intatto il pregevole risultato estetico. Straordinari, minimalisti giapponesi.





sabato 28 settembre 2013

City of lights


Tokyo appena dopo l’imbrunire, vista dallo Skytree, nuovo mostro di acciaio, cemento e vetro che svetta e domina la capitale nipponica, dall’alto dei suoi 634 metri. E siccome i giapponesi non fanno nulla per caso, l’altezza è stata decisa in base al vecchio nome del quartiere dove sorge la torre, Musashi, che suona appunto 6, 3 e 4. Così nessuno farà brutte figure con dei gaijin se interrogato sull’esatta altezza della costruzione più alta del Giappone. È facile: Musashi.

I 350 metri per salire all’osservatorio si percorrono in 49 secondi di ascensore (roba da orecchie tappate) e 45 minuti di coda (se siete fortunati e non incappate in un giorno di ressa).

Ma vale la pena. Perché la vista è incomparabile. Fino al tramonto si vede perfino in lontananza il profilo conico – e iconico – del monte Fuji.

La città delle luci – bianche, verdi, gialle, rosse, blu, violette – è Tokyo. Gomennasai, Parigi.




venerdì 20 settembre 2013

Luna rossa

Cielo terso del Nord dell’Australia. Piena, lucente e nitida. Equinozio di primavera (da noi, nell’emisfero boreale, è quello d’autunno). Erano anni che speravo di rubare un ritratto così di Latona. A mano libera, senza supporti, amore, passione, un respiro profondo e via. Clic. Uno scatto speciale.


Magia della Luna. Rossa, come solo la terra del deserto australe.





domenica 15 settembre 2013

La fiducia...

... è una cosa seria, che si dà alle cose serie. Così recitava una vecchia pubblicità casearia, chissà chi se la ricorda ancora.

È dai piccoli episodi che si riconosce la civiltà: indissolubilmente va a braccetto con la fiducia, quando ben riposta.

Questa foto potrebbe far pensare a una passione – che invece non ho – verso le due ruote americane, rombanti e corrusche di ricche cromature.

Ma osservatela attentamente, nei dettagli. Notato nulla?

Vi aiuto. Ecco il particolare a cui mi riferivo.

Lo scontrino del parcheggio. Che significa le seguenti cose:

- qualcuno si è dato la pena, di tardo pomeriggio, posteggiando nella zona blu, di pagare la sosta.

- Non avendo un ambiente chiuso dove esporre il biglietto, lo ha calzato sotto il cuoio del serbatoio...

- ... partendo dal presupposto che nessun furbo se lo fregasse per usarlo a sua volta e risparmiare magari qualche spicciolo, esponendo però l'onesto motociclista al rischio di un’ingiusta multa.

- E – incredibile dictu – è successo davvero. Nessuno se l’è fregato.

La fiducia è una cosa seria. È bello sapere che talora venga premiata.



domenica 25 agosto 2013

Bussole viventi

Mettiamo che il destino vi abbia fatto nascere in una famiglia il cui nome è un punto cardinale. E che voi e vostra moglie siate entrambi personaggi dello show business – roba da rotocalchi e reality televisivi – in America. Mettiamo infine che il vostro matrimonio venga allietato dall’arrivo di una frugoletta.

Quale genitore sarebbe così crudele da imporre alla neonata un altro punto cardinale come nome proprio? Lo so, sembra una barzelletta. Purtroppo non lo è. La pargola del signor Kanye West – e della signora Kim Kardashian – è stata chiamata North. Che legato al cognome, la rende North West. Praticamente Nord Ovest. Questa povera figliola – sempre che raggiunta l’età della ragione non lo cambi, stufa di esser presa in giro dai compagni di classe – si porterà appresso un appellativo che fa pensare più ad un’arteria periferica di grande scorrimento che un nome di fanciulla. Prendi la nord-ovest, che fai prima, in centro ci sono sempre ingorghi. E poi chi ha deciso che il nord è femminile?

Se il matrimonio durerà a sufficienza da mettere in cantiere altra prole, c’è da sperare che non vogliano completare il trittico, aggiungendo anche Sud Ovest e Est Ovest. Ci sono già dei meteorologi e dei nocchieri pronti a dar battaglia, rivendicando ai propri mestieri il corretto uso di tali denominazioni da rosa dei venti.




domenica 11 agosto 2013

Ispirazioni oniriche

Talvolta certi racconti prendono forma nei sogni. La mattina, quelli che mi ricordo ancora, ho l’urgenza di buttarli giù, prima che li perda nei meandri della memoria. Il mio amore per i formaggi stanotte ha preso delle forme inaspettate. Vedevo dei personaggi. Erano dei camerieri. Ognuno aveva un latticino a cui si abbinava.

Lo squacquerone – inconsistente ed amorfo come il detto cacio. Vagola per la sala senza un apparente perché. Quando gli altri si caricano di pile di piatti sporchi da ritirare, lui spilluzzica due o tre stoviglie qua e là, da clienti scelti a caso, e poi impegna percorsi tortuosi e illogici per tornare in cucina. O è timido o ha la testa altrove, perché non c’è verso di incrociare il suo sguardo, per pura necessità alimentare e non per desiderio di socializzazione. Per la legge di Murphy, il suo vassoio si svuota sempre all’ultimo commensale del tavolo prima di voi. Al che scompare in cucina e probabilmente riceve una telefonata da un aborigeno australiano, perché se ne perdono le tracce per un buon quarto d’ora. Lasciandovi ai morsi della fame, acuiti dai gridolini di apprezzamento dei vicini che stanno gustando deliziose specialità. Loro. Maledetti. Si ritiene debba essere un parente intoccabile o un raccomandato – o entrambi. È l’unica spiegazione che giustifichi la sua inane presenza in mezzo a colleghe che trotterellano servendo a ritmo di valzer, mentre lui sembra fermo ai lenti da discoteca anni settanta.

Il gorgonzola – la similitudine con il vivace formaggio padano è puramente olfattiva. Non si capisce se sia colpa della divisa, in grave ritardo sulla tabella di marcia verso la tintoria, o se dipenda direttamente da lui. Fatto sta che il suo avvicinarsi al tavolo è palese perfino ai ciechi. Altrimenti innocuo, e talora addirittura solerte, questo handicap lo rende inviso alla maggioranza dei commensali, costretti ad apnee tipo Maiorca in attesa che sia terminata la somministrazione degli antipasti misti dalla guantiera – con conseguente e fatale ampia sbracciata verso i piatti e ostensione ravvicinata dell’ascella mefitica. Tale situazione può assumere conseguenze letali in estate, in locali privi di aria condizionata.

Il parmigiano – il re dei formaggi per il re dei camerieri. La sua lunga militanza nel solito ristorante ne certifica l’indiscussa autorevolezza. Fatevi consigliare, sempre. Lui ha l’occhio lungo in cucina, e sa cose. Se vi raccomanda il pescato di paranza, lasciate perdere l’orata. Se vi propone i funghi trifolati, non insistete con una banale milanese. Un suggerimento non accolto può causare reazioni a catena. Perché il re è spesso permaloso e si offende se i suoi pregevoli pareri non sono accolti con approvazione e gioia dai commensali, o peggio ancora vengono snobbati a favore di banalità culinarie che lui rifugge come un panino di McDonald e la cui associazione con la sua ieratica figura lui trova disonorevole, al punto da mandare in sua vece il garzon giovine, per recare agli indegni deschi tali vergognose refezioni. Alla fine del servizio non dimenticate una generosa mancia, se avete intenzione di tornare di nuovo in quel ristorante. Non perché il re ne abbia necessità – è solo un concreto segno di apprezzamento. Inchini e riverenze, pur essendo anch’essi correnti gesti di omaggio all’autorità regale, non sortiscono purtroppo gli stessi benefici effetti presso re parmigiano. Quindi mano al portafoglio, tirchiacci.

E infine...

La mozzarella – fresca, giovane, allegra e gradevole. Come una vera mozzarella appena plasmata dalle mani sapienti del mastro casaro. Serve col sorriso sulle labbra. Ringrazia lei se riceve un piccolo gesto di cortesia dai clienti. È rapida ma aggraziata. Ogni portata è accompagnata da una parola gentile. Indossa un paio di occhiali troppo grandi su quel musetto simpatico. Se lavorasse negli Stati Uniti e non in questo paese di avaracci farebbe una fortuna in mance. Come gli altri ritratti, non è un personaggio immaginario. Ed è l’unica di cui dirò di più: si chiama Camilla, l’ho conosciuta ieri sera in occasione di una pizzata e lavora in un locale sul lungomare versiliese. Avremmo bisogno di tante Camille in Italia: sarebbe un paese migliore.




sabato 3 agosto 2013

De Bello Civili

Il bon-ton del nuovo guerrigliero urbano – scritto a quattro mani da Sandro Bondi e Lina Sotis.

Invece della vetero-comunista P38, alle manifestazioni di piazza si consiglia di portare la propria dichiarazione dei redditi da nullatenenti. Che notoriamente fa molto più danno alla comunità di una pistola con soli sei colpi, spesso imprecisa e oltretutto complicata da usare.

Gettare sampietrini estirpati dall’impiantito urbano non solo è volgare, ma si rischia sempre di rompersi un’unghia mentre si tenta di svellerli o di slogarsi un polso all’atto del lancio. È preferibile - e molto più efficace - sbattere in faccia alla gente che non arriva a fine mese le chiavi del proprio yacht battente bandiera panamense e prudentemente ormeggiato a Malta.

Le barricate sono superate vestigia delle rivoluzioni dei secoli passati. Il vero barricadero à-la-page salirà sulla portiera aperta del proprio SUV intraversato sulla strada, possibilmente un Hummer esentasse targato CH (non Chieti) che nemmeno una orda di unni sarebbe capace di ribaltare, e da questo lancerà invettive verso la marmaglia operaia, che al massimo potrà controbattere dal basso di qualche Duna scalcagnata.

Mai fare l’errore di presentarsi ad una matinée di protesta in giacca e cravatta, o ad una première di contestazione serale con maglione di cachemere o una giubba in tweed adatti invece ad una ribellione campagnola. Ogni evento avrà il suo coordinatore d’immagine, una specie di buttafuori da discoteca, che ammetterà alla lotta di classe solo chi dimostrerà che la classe ce l’ha nello scegliere la mise giusta per ogni occasione di sommossa.

Per i cocktail molotov (no, razza di testoni, non sono degli apericena organizzati da Putin, sono delle armi improprie) si raccomanda di usare bottiglie di Martini dry o di champagne millesimato, che quelle orribili bottigliacce proletarie piene di cherosene puzzano da morire e lasciano le mani tutte sporche e unte. Magari l’effetto non sarà proprio lo stesso, ma vuoi mettere il profumo che lascerebbe addosso alla plebaglia maleodorante una bella doccia da una magnum della vedova Clicquot?




venerdì 2 agosto 2013

È bello crederci


Che un “allestimento urbano d’arte”, sotto i portici della via centrale, si trasformi in una specie di gioco per testare il livello di generosità dei cuneesi.

Che qualcuno abbia immaginato un bellissimo slogan: questi giocattoli hanno bisogno di avere ancora bambini da far divertire e questi bambini hanno il diritto e la necessità di giocare.

Soprattutto che lo scatolone sia stato davvero riempito da gente generosa, fino a traboccare oltre la capacità stessa del cubo, con scatole e sacchetti in bilico sul tetto dell’originale installazione interattiva.

Infine, che questi balocchi un giorno raggiungano veramente dei bimbi bisognosi e privi di tutto, anche della semplice gioia di un gioco.





sabato 13 luglio 2013

Sussurri e grida - 3

Fatemeli conoscere. Vi prego. Voglio dare un volto a quegli ineffabili creativi (stipendiati dai consumatori con l’acquisto delle relative merci) artefici di certe pubblicità.

Continuo a ripeterlo: so che c’è di peggio, al mondo. Ma non si può proprio fare a meno di vedersi ammannire, con pervicace frequenza televisiva, le seguenti réclames?

Nell’ordine di insopportabilità, una personale hit parade dell’estate 2013. Gli spot da urlo. Il mio, di disgusto, seguito dall’immediato e salvifico cambio di canale. Anzi, meglio ancora: spegnere il tutto, andare a fare due passi, aprire un bel libro, chiamare un amico che non senti da tempo.


Terzo posto
Lo spot: un imbranato di proporzioni epiche arranca goffamente nella rena, palla al piede (si fa per dire), facendo tutto il contrario di quello che perfino un bambino di cinque anni saprebbe fare per cercare di andare a segnare un gol. Colonna sonora: un radiocronista dai toni sempre più concitati ed eccitati che racconta un’azione memorabile, degna di un Italia Germania quattro a tre. In sincrono col fatidico grido gooool!!, l’incapace frana mestamente a terra, ciccando la palla a due passi dalla rete.
Cambio di scena: viene inquadrato uno sfaccendato seduto per terra. Per dimostrare la sua confidenza con le nuove tecnologie si è portato in spiaggia il tablet, che oggi non sei nessuno se non ce l’hai e soprattutto se non lo esibisci nei luoghi più inidonei. Incurante di mare, sole e aria salsoiodica, lui nemmeno lì può rinunciare alla visione dei suoi beniamini in mutande colorate. Questo spiega l’apparente incongruità tra sonoro (football professionistico) e azione visiva (brocco terrificante). Il lobotomizzato da calcio su mini schermo lancia un languido sguardo da approccio (ehi, non vedi come sono figo?) a una bellezza al bagno. La quale prontamente si alza e va a sedergli vicino.

Condannabile perché: la giovane concupita, non appena resasi conto di ciò che il bighellone sta osservando, invece di mandarlo immediatamente a quel paese (ma vedi tu questo imbecille: pure a luglio, quando campionati, coppe, amichevoli e tornei aziendali sono finiti, insiste a guardarsi le partite invece di godersi la giornata al mare) e andarsene schifata, resta lì, mostra crescente confidenza e piacere della compagnia, addirittura pare ostentare interesse per le sorti del match. Nel mondo reale: non esiste. Per fortuna.


Secondo posto
Lo spot: L’intervista a Uma Thurman. Un pischello di giornalista (certamente da rotocalchi scandalistici) siede di fronte alla Duse di Tarantino. Il tapino emana insicurezza e inadeguatezza da ogni poro – oltre a quantità inammissibili di sudore. Lei, maliarda ma eterea e irraggiungibile come un’imperatrice cinese, lo guarda con infinita compassione.
Poche, ininfluenti battute, fino al calembour colonna portante dello spot. Uma sussurra, con voce suadente, la marca della bevanda. Lui rimane interdetto e - a causa della evidente abissale ignoranza di qualsiasi lingua che non sia l’italiano - equivoca: si illude che lei gli stia facendo delle profferte. E osa pure chieder conferma della cosa: Uma, stai parlando di sesso?

Condannabile perché: uomo dall’ascella pezzata, dimmelo. Tu a casa non ce li hai mica gli specchi, vero? Oppure fai parte di quella cospicua maggioranza di maschi che, pur essendo dotati del sex-appeal di un bradipo, credono normale che non solo una casalinga di Voghera, ma addirittura un’attrice di successo già faccia loro proposte scandalose a pochi secondi dalla loro conoscenza? Ragazzi, diamoci una ridimensionata. Un po’ di autostima fa bene. Ma l’autocritica dove l’abbiamo dimenticata???


Réclame regina
Lo spot: spiaggia piena di gente, indaffarata a sembrare in vacanza. Annunciato da musica angosciante tipo Squalo due la vendetta, ecco il dramma. Una decerebrata si accorge di avere un’orrenda imperfezione: il suo tallone è squamoso come la livrea di un tirannosauro. Attorno alla superstite di Jurassic Park si fa il vuoto. Gli altri bagnanti lanciano urla disumane fuggendo terrorizzati, come se invece di aver visto un piede malconcio si fossero improvvisamente imbattuti nell’intera fauna estinta di Isla Nublar.

Condannabile perché: signori, rivediamo un po’ priorità e reazioni. Ci sono molte cose al mondo che giustificherebbero una folla urlante (di indignazione, di raccapriccio, di orrore, di rabbia). Ma nessuna di queste ha a che vedere con le estremità screpolate di una donzella al mare.




mercoledì 10 luglio 2013

T.I.C. 2013 – 3



Prendete dei giapponesi. Portateli in Cina, ad aprire un negozio di crostate e pasticcini. Si accontenteranno di una vetrina, di un’insegna, di un nome magari spiritoso e ammiccante, che richiami folle di golosi attirati dalla conclamata qualità nipponica, applicata perfino al ramo dolci e affini?

Nemmeno per idea. I giapponesi devono riempire un muro con inquietanti farneticazioni in un improbabile inglese senza capo né coda. Calembour mal giocati e una fastidiosa alternanza di caratteri grandi e piccoli. Ahimè, con una triste caduta di stile alla conclusione: dall’aulicità di laghi, angeli e lune scintillanti, al prosaico invito a entrare e scoprire gli zuccherosi segreti della loro pasticceria. Cosa tocca fare per vendere quattro torte in più...





lunedì 8 luglio 2013

T.I.C. 2013 – 2

Che necessità c’è di sprecare dei soldi per fabbricare degli appositi serbatoi, quando rovistando in un qualsiasi cestino dell’immondizia di città si trovano quante bottiglie da bibita si vogliono?

Ecco a voi il fucile ad acqua, versione Regno di Mezzo. Tè, pepsi, aranciata, acqua, succo di frutta. Ognuno si scelga marca e prodotto che più gli aggradano. E se la bottiglietta si bucasse, niente paura. Una frugata nel cassonetto della plastica, et voilà: pronto il pezzo di ricambio. Gratis. Che volete di più? Straordinari cinesi.






sabato 6 luglio 2013

T.I.C. 2013 - 1



Chi se ne importa, paiono dire queste due ragazze che si preparano al servizio fotografico nell’ambiente caratteristico di una Cina antica che non c’è quasi più.

Tanto il vestito è bello lungo, e copre tutto. Allora sotto vanno bene anche le ciabatte rosa, o i sandali con la zeppa color verde mare.

I dettagli, si sa, sono per quegli inguaribili perfezionisti degli europei. Qui, nella terra dell'apparenza, quel che non si mostra non esiste. T.I.C.




giovedì 30 maggio 2013

Prigionieri - 2

Fèrmati per andare avanti. È il motto dell’Eremo del Silenzio.

E pensare che pochi mesi fa, all’arrivo a Perth, avevo sorriso, vedendo, proprio all’uscita dall’aeroporto, la pubblicità dalla vecchia galera di Fremantle. Che, con squisito senso dello humour australiano, recitava: dando il benvenuto ai visitatori da centocinquanta anni. Il nuovissimo mondo. Talmente recente da non avere nient’altro di più antico o di più rimarchevole da visitare. Che idea bizzarra, vero, visitare una prigione?


Invece, una domenica di maggio, mi capita di passare davanti alle Nuove, a Torino. Fin da ragazzo ricordo di aver osservato quei muri in mattone pieno con un senso di inquietudine e di curiosità insieme. Curiosità di sapere che mondo ci fosse dietro quella recinzione, dietro quelle sbarre, attraverso le quali ogni tanto capitava di vedere un detenuto comunicare con qualche parente – prima degli anni di piombo, che porteranno misure più severe e ancor più spinto isolamento dal mondo esterno. Inquietudine per quel senso di ovvia pericolosità del luogo, dell’ambiente, il pensiero teso all’auspicio di non dover mai, neppure per errore, trovarsi a dover frequentare da ospite tale luogo di pena ed espiazione.

E la curiosità mi ha sopraffatto, quando ho trovato un nuovo varco laterale spalancato di recente nel muraglione. Impossibile resistere. Bastano pochi, timidi passi, ed eccomi dentro al perimetro del carcere. Una signora mi chiede: vuole visitare il Museo delle Nuove? Forse, dico, ma mento. Certo che voglio. La seconda e la quarta domenica del mese ci sono visite guidate, alle nove di mattina. Unico viandante mattiniero, ho la fortuna e il privilegio di avere una guida tutta per me. Michele, volontario, mi accompagna attraverso un percorso di oltre un’ora. Attraverso il camminamento interno, recintato dalle due cinte murarie, si entra nella struttura. Non prima di aver reso un omaggio ad una teoria di fotografie d’epoca, ritratti seri, fieri, volti non sconfitti, vittime delle rappresaglie naziste in tempo di guerra. Persone che oggi si ritrovano nella toponomastica di Torino. Il generale Perotti, Massimo Montano, Paolo Braccini, Eusebio Giambone, Ignazio Vian, Emanuele Artom. E tanti altri sconosciuti combattenti morti per darci un’Italia migliore. Chissà se lo rifarebbero, vedendo l’odierno stato miserevole della nostra penisola.

Michele alterna interessanti notizie storiche e architettoniche con le vicende di umili eroi, come suor Giuseppina, che salvò uomini, donne e bambini, in tempo di guerra. Come padre Ruggero, cappellano carcerario, cinquant’anni tondi passati lì dentro, dalla guerra alla seconda repubblica.

E poi ci sono le odissee di ignoti reclusi, raccontate dai graffiti incisi sui muri delle celle. Disegni, incerte parole in dialetto, ma anche le ultime lettere dei partigiani condannati, piene della loro straziante certezza di morire, pur confortata dalla serena fierezza di aver lottato per un mondo migliore, che lasciavano in eredità a mogli, figli, parenti.

Fra tutte queste testimonianze scarabocchiate da animi angosciati, c’è chi, nella sezione femminile, è stata capace di sintesi massima, mentre esternava cosa si prova a stare in cella: qui si fa solo strage di sogni.

Michele mi chiede, alla fine, di far conoscere il loro oscuro lavoro di volontari, retribuito solo dall’apprezzamento e dalla riconoscenza dei visitatori. E di lasciare due parole sul registro. Faccio entrambe le cose molto volentieri. Ci sono esperienze che vale la pena fare, nella vita. Come questo viaggio attraverso un luogo opprimente, ancora grondante dolore e echeggiante grida e lamenti di sofferenze passate. Per capire il valore della parola libertà, spiegata nell’ambiente in cui è costretto a vivere – e spesso a morire – chi la libertà l’ha persa. Giusta o sbagliata che sia la ragione per cui si son trovati lì.

Sono di nuovo fuori da quelle mura alte e scure. Respiro a pieni polmoni l’aria tersa e fresca. Il sole non mi è mai sembrato così caldo e scintillante.




giovedì 16 maggio 2013

Prigionieri – 1

Bloccato per un giorno e mezzo a Torino da uno sciopero delle ferrovie, per fortuna sul weekend. Sul momento mi sento intrappolato dalle circostanze. Strana sensazione, essere in un posto e non poterlo lasciare. Poi decido di fare di una seccatura un’opportunità. Prigioniero della mia città natale, mi metto a girovagare, riscoprendo angoli che mi piacciono. Turista per caso. Complice il tempo bellissimo, scatto foto a destra e a sinistra.

Il palazzo con il piercing. Mi metto a naso in su, e mi accorgo di non essere l’unico che non conosceva questa estrosità architettonica. Altri seguono l’esempio, sfoderano telefonini e macchine fotografiche e se ne vanno soddisfatti della scoperta.

Mi piacciono i campanili. Ce ne sono di bellissimi in giro per Torino, e nemmeno i più famosi. Ecco San Donato al tramonto, illuminato in tralice, con i colori sgargianti sulle pareti e l’oro delle statue che scintilla. E San Secondo colto proprio sul rintocco di mezzogiorno, con le campane che si agitano festose e riempiono l’aria di suoni.

Ci sono scorci, dalle parti del quadrilatero, che mi ricordano la Toscana. Raro vedere case dalle facciate ricurve a Torino, città squadrata e ordinata per eccellenza. Ma cercando bene qualcuna se ne trova. Aria di Granducato, più che Regno di Sardegna...

Le sfigatte. Simpaticissimo il nome scelto da questa associazione: aiutano gli animali in difficoltà a trovare un umano che abbia voglia di ospitarli e dar loro una buona vita. E il motto è umilmente memorabile: ci piacerebbe cambiare il mondo, ma per ora ci accontentiamo di migliorarlo.

Quando la natura si risveglia, certi alberi hanno una luce abbacinante. Come questo, nei giardini Lamarmora. Attorno a lui, bambini che corrono spensierati. Cani a passeggio. Babbi che spingono carrozzine. Perfino un’inaspettata rondine, lassù, proprio sopra la vetta del manto di foglie di un verde tenero. È esplosa la primavera.

Poche statue hanno la potenza plastica del Conte Verde. Per non parlare del raffinato e intricatissimo lavoro di cesello sulle maglie delle armature. Non è un Re che sprona lontane truppe con gesto ieratico, dall’alto della cavalcatura. È un guerriero dal minuscolo scudo e dalla spada pronta all’offesa. Non fosse per la corona di cui è cinto, potrebbe confondersi con un soldato qualsiasi. Ai tempi in cui le guerre non si fotografavano, c’erano degli scultori che le sapevano ritrarre magistralmente. Come il Palagi.



Seguirà il racconto Prigionieri 2 – ma non si sa quando...